GROTTA DI SAN BIAGIO

ovvero

L'Ipogeo dei Santi Giasone e Mauro

Purtroppo questo luogo è addirittura scomparso dalla memoria storica collettiva stabiese e sopravvive soltanto negli archivi della Soprintendenza ai Monumenti, in qualche pubblicazione di studiosi italiani, ad esempio la Bertelli, o stranieri, ad esempio il Belting; oppure di qualche appassionato ricercatore locale come il sottoscritto e pochi altri.

                                                                                                                                                                                                                        San Michele

Eppure questo monumento potrebbe riservare notevoli sorprese scientifiche e artistiche e, una volta valorizzato, costituire un luogo privilegiato di interesse culturale e, perché no, turistico.

A questo punto vi chiederete che cosa sia questa "Grotta di San Biagio" e perché dovrebbe essere valorizzata.

Vi propongo, allora, un breve viaggio nel tempo per scoprire questo piccolo tesoro stabiano.

Vediamone, allora la genesi.

Dobbiamo partire dall'epoca romana, anche se, forse, potrebbe essere stata abitata anche in epoche precedenti.

Secondo studi recenti questa grotta che, come vedremo in seguito, più correttamente dovremmo chiamare Ipogeo, cioè costruzione sotterranea, fu sfruttata dai romani per la costruzione delle loro ville di otium sulla collina di Varano. Difatti questa grotta è costituita da materiale tufaceo, materiale cioè utilizzato nelle costruzioni fino a meno di settant'anni fa, prima dell'avvento del cemento armato.

Quindi, in origine, avrebbe potuto essere una grotta naturale, ampliata dai Romani per l'estrazione del tufo da costruzione.

Nella collina di Varano sono stati, recentemente, scoperti alcuni viadotti in parte sotterranei, che mettevano in comunicazione le ville romane con il mare sottostante. Uno di questi cunicoli, dal grande fascino, è oggi visibile e percorribile nel complesso indicato come Villa Arianna.

Quindi questo ipogeo potrebbe essere una piccola parte di un viadotto sotterraneo per la comunicazione tra una villa in collina ed il mare.

Santi Renato e Benedetto

Questa è una teoria recentissima che, però, abbisogna di riscontro sul terreno. Ecco, quindi, una prima utilità di una eventuale esplorazione e scavo scientifico di questa grotta.

Se pensate, poi, che il cunicolo di cui parlavo prima, venuto recentemente alla luce, è frutto solo del caso. Difatti un bel giorno sprofondò improvvisamente nel terreno un albero di fico e per vedere che fine avesse fatto, fu scoperto il viadotto di collegamento con il mare di Villa Arianna.

E' noto, poi, che in seguito all'eruzione vesuviana del 79 d.C. questo luogo fu abbandonato e la città si spostò verso sud-est.

Le prime testimonianze di epoca post romana di questa grotta risalgono al V-VI secolo dell'era nostra.

Secondo antichi autori (Milante, de Ruggiero, de Rosania) e autori meno recenti (Cosenza, Di Capua) questa grotta di epoca romana fu trasformata, forse, dai primi cristiani in catacomba e successivamente, dai monaci Benedettini, in chiesa sotto il titolo dei Santi Giasone e Mauro.

La presenza benedettina nelle nostre contrade è dimostrata da molteplici documenti recentemente segnalati e studiati. Difatti in tali documenti di epoca medievale tutta la zona dell'attuale Rione San Marco, ove appunto si trova la Grotta di San Biagio, era costituita da territori di proprietà del monastero di San Renato di Sorrento, appartenente all'ordine Benedettino.

Questa grotta, quindi, fu trasformata in chiesa, con una pianta a croce latina, con presbiterio ed altare maggiore.

 

E’ divisa in tre parti, che assunse funzione di basilica, ossia di chiesa. Pertanto le tre parti che la compongono sono da identificarsi in:

a) Atrio (m. 6 x 2.90)

b) Navata (m. 14 x 3)

c) Abside (m. 13 x 4)

 

Che questa grotta fosse stata un oratorio cristiano sin dal V-VI secolo potrebbe essere dimostrato dal recente rinvenimento di una lastra tombale con iscrizione risalente a tal epoca, ritrovata nei pressi della grotta, di non facile interpretazione, ma che, comunque, riporta un'iscrizione che, tradotta, suona in questo modo:

Qui riposa Redimito, servo di Dio,

che si convertì

insieme con sua moglie Barbara

"tollendo rostinas"

proprio da questi Oratori

e che visse trent'anni.

L'espressione tollendo rostinas è, credo, la chiave di volta per l'interpretazione della lapide.

Rostinas, termine ignoto al latino classico, deriverebbe da rus ruris, da cui rustum rusti, nel senso di rovo, luogo spinoso, che, unito all’espressione dialettale locale rustino, cioè pianta selvatica infestante, potrebbe significare che il nostro Redimito avesse restaurato un luogo che era abbandonato, in cui era cresciuta una vegetazione selvaggia.

Ma, a ben guardare, questa lapide potrebbe dirci anche qualcosa in più.

Secondo la tradizione e gli antichi autori, questo luogo avrebbe anche potuto essere un piccolo tempio pagano. Anche il Di Capua propende per questa ipotesi. E siccome i primi, ma non solo i primi, cristiani edificavano i primi luoghi di culto proprio su preesistenti are o templi di culto pagano, anche per redimere tali luoghi dal male, nulla vieta di ipotizzare che il nostro Redimito della lapide, redimito che non significa altro che Redento, avesse proprio redento questo luogo di culto pagano, estirpando la mala pianta del paganesimo e trasformando un antico tempio pagano in un oratorio cristiano.

Di simili operazioni di "bonifica religiosa", per così dire, abbiamo vari esempi. E tanto per non citare il solito tempio di Augusto di Pozzuoli sopra il quale fu edificata la Cattedrale, ricorderemo che qui a Castellammare la chiesa di Pozzano è costruita, molto verosimilmente, su un tempio dedicato alla dea Diana.

Ritornando alla Grotta di San Biagio ricorderemo che dentro e fuori il suo perimetro sono state ritrovate molteplici sepolture di epoca paleocristiana. Giuseppe Cosenza parla addirittura di Cimitero cristiano.

Come si vede un luogo di grande fascino.

La prima cosa strana di questa chiesa, di questo Oratorio, è data dalla presenza di affreschi di grandi proporzioni soltanto sul lato sinistro, mentre al lato destro ve ne sono soltanto tre presso l'ingresso e poi più nulla.

Questi affreschi, secondo autori recenti e recentissimi, coprono un ciclo pittorico che va dal V-VI secolo fino al IX-X secolo.

Questo fino ad oggi.

Ma, proprio l'anno scorso e quest'anno, con alcuni studiosi, abbiamo notato la presenza di tre affreschi presso l'ingresso dell'ipogeo non visti né descritti da altri autori.

Nemmeno il Cosenza, che nel 1898 dedicò un'intera pubblicazione a quest'ipogeo, e nemmeno il Belting nel suo recente saggio del 1968.

A prescindere dal perché questi affreschi non siano stati descritti da nessun autore, quello che colpisce in essi è l'assoluta diversità stilistica con tutti gli altri.

Difatti si tratta di affreschi di chiara ed univoca fattura trecentesca, che qualche recente autore non ha remore nell'attribuire ad una eventuale scuola giottesca. Non dimentichiamo che in questo periodo Giotto è attivo e lavora in Napoli per la corte angioina, corte che d'estate veniva nel palazzo reale di Quisisana.

Vi è ancora a dire che in questo oratorio cristiano è presente in modo intenso il culto dell'arcangelo Michele, culto diffuso in tutta Italia a partire appunto dal VI secolo e pare proprio per opera dei Longobardi.

Oltre a San Michele, San Gabriele e altri Angeli, la Madonna col Bambino e Gesù Cristo, gli altri Santi riconoscibili sono San Pietro, san Giovanni Evangelista, San Renato, Santa Brigida e San Benedetto. Rimangono inoltre altri tre Santi da identificare.

Per curiosità dirò anche che qui è anche rappresentato Uriele, il quarto arcangelo, il cui culto fu poi vietato nel Concilio di Aquisgrana del 789 d.C.

Il quarto arcangelo: Uriel

In epoca medioevale il luogo, o meglio l'Oratorio era dedicato ai santi Giasone e Mauro, due fratelli romani martirizzati nei primi secoli del cristianesimo.

Col tempo il luogo fu detto "ai santi Giasone a Mauro" e poi soltanto "a Santo Jase o Giase".

Nel linguaggio popolare il poco noto o dimenticato Santo Giase fu ben presto trasformato nel più noto "santo Biase" e, quindi, san Biagio. Di qui il toponimo Grotta di san Biagio.

In alcuni documenti quattrocenteschi sono addirittura usati contemporaneamente i due nomi: "santo Giase" e "santo Biase".

Credo, alla luce di quanto detto che sarebbe davvero opportuno ed auspicabile una seria e scientifica indagine sui luoghi, da affidare ovviamente alle due Soprintendenze, Archeologica e ai Monumenti, per restituire all'antico splendore questo monumento di storia stabiana, questo ulteriore luogo della memoria, e consegnarlo all'attenzione dei ricercatori e alla curiosità attenta del turista.

Anche così, e forse proprio così, si contribuisce al rilancio artistico, storico, culturale ed umano del nostro troppo martoriato territorio.